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altri situati più giù sulla linea, aspettavano l’ora e l’ordine. Neppure una mezza dozzina di essi apriva la bocca per parlare. Quando giungemmo ad una località stabile, lo sportello di un osservatorio ci fu aperto sul paesaggio sottostante. Vedemmo l’Isonzo svolgersi quasi verticalmente sotto di noi e al di là erano le trincee italiane, che si inerpicavano a stento dalle rive del fiume fino alle creste delle brulle giogaie, dove è la fanteria, che deve essere vettovagliata nell’oscurità della notte, fino a quando gli Austriaci non saranno scacciati dalle alture superiori.

«Questo è proprio come lottare con un ladro sui tetti», disse l’ufficiale. «Voi potete scoprirlo dalla cima di un comignolo; ma egli può scoprir voi dalla guglia della cattedrale, e così via».

«Ma chi mai riuscirebbe a vedere quegli uomini nelle trincee laggiù?» domandai.

«Chiunque può vederli, da ambedue le parti; ma essi sono coperti dai nostri cannoni. Tale è la nostra guerra. L’altezza è tutto».

Egli nulla mi disse del lavoro immane che tutto ciò richiede, prima che un solo uomo o un solo cannone potesse colà istallarsi; nulla della battaglia che infierì in quelle gole, lassù, quando l’Isonzo fu varcato e le trincee italiane si aprirono penosamente il varco sanguinoso su per il versante del monte; e disse ben poco altresì di quella mostruosa gibbosità, intrisa di sangue, che si chiama il Sabbotino, e che fu presa, perduta e ripresa, nel modo più glorioso, durante i primi giorni del-