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Il ventre di pietre.


«E quello è l’Isonzo» disse l’ufficiale, quando fummo giunti all’estremità della pianura di Udine.

Si sarebbe detto che esso scaturisse dal Cascemir, con le frequenti sinuosità delle sue secche scialbe, che si inseguivano, giù per la corrente, in una danza vaporosa. Le acque, di color lattiginoso, odoravano della neve dei monti, mentre si avventavano contro le corde dei pontoni, allungati in modo da permettere molti piedi di altezza, a seconda del flusso delle acque. Un fiume nutrito di neve è altrettanto infido quanto un uomo ubbriaco. L’odore caratteristico dei muli, del fumo acre del legno ardente ed una fila di carrette siciliane dalle ruote alte, coi loro fianchi dipinti a soggetti biblici, davano la illusione di una scena orientale. Ma il costone emergente dall’altra parte del fiume, e che sembrava così ripido, non era in realtà che un monticello piatto tra le montagne e non rassomigliava a nessun altro luogo sulla terra. Se i Matoppos si fossero accoppiati con i Karroo, avrebbero potuto appena concepire un tale aborto di pietrisco chiazzato e di lordume sminuzzato dalle intemperie. Lungo tutta la sua base, indifferenti oramai alle migliaia di soldati che erano lì intorno, allo stridio dei muli, al rauco tossir dei motori, al fracasso delle macchine