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Le sollevate zolle: a quell’invito
Ratti movemmo ove s‘apria lo scavo,
E d’alta meraviglia
Ognun compreso, inarca allor le ciglia:
Quante vedemmo inver cose stupende!
E piromaca silice ed avanzi
Dell’arte prisca figulina, ed ossa
E d’uomini e di belve
Insiem tutto frammisto entro la fossa.
          Quanta di lunghi secoli catena
Si svolse mai, da che quelle reliquie
Giaccion quivi sepolte?
Ci rivolgemmo allor con questi accenti
A color, che per scienza eran veggenti;
Ed essi tosto: in quelle
Noi venerar dobbiam di prische genti
Prezïose memorie,
Vetuste sì, che d’esse
Traccia non avvi nell’antiche istorie.
          Paghi di tanto, ognun vaghezza colse
D’esplorar la caverna, e di tentarne
L’inaccesse latèbre, e là movemmo.
Immensa volta, e d’ogni luce muta
S’erge sul capo, né lassù penètra
Chiaror d’ardenti faci;
Perdonsi i sguardi audaci
Nel misterioso spazio, e sol vi scorgi
Il luccicar di vaghe stalattiti,
Che in mille forme e mille,
Allo splendor de’ lumi
Rassembrano mandar lampi e faville.
          Varcato il primo speco, un pauroso
Laberinto di grotte
S’apre dinanzi: il calle ora s’adima
Vêr la base del monte,
Ed ora invêr la cima
Ripido sale; giù dall’alto stillano
L’acque sottili, e rendono
Malagevole e lubrica la via: