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il vecchio barone Pisani e suo figlio Casimiro, Martino Beltrami-Scalia, Giambattista Marinuzzi, Francesco Vassallo, Enrico Albanese, Andrea d’Urso, Giuseppe Campo e Francesco Brancaccio. La mente e l’autorità maggiore del Comitato erano quelle del vecchio barone Pisani; gli altri appartenevano quasi tutti alla borghesia facoltosa, che rappresentava la maggior resistenza al governo dei Borboni. Martino Beltrami Scalìa, genero del barone Pisani, era insegnante privato, come si è veduto; Buccheri era negoziante di ferramenta; Cortegiani, farmacista e fratello dell’agente del duca di Aumale; Marinuzzi iniziava la sua professione nel fóro; E-ammacca aveva bottega di cambiavalute in via Toledo; i fratelli Di Benedetto discreti benestanti, e l’Onofrio anche medico, e Andrea d’Urso era l’uomo d’affari della contessa di San Marco, la quale fu tanto utile alla causa liberale. Questa signora era ultima di casa Filangieri San Marco e vedova del conte di Sommatine, anch’egli di casa Lanza, morto di colera nel 1837. Francesco Brancaccio viveva nel mondo aristocratico e non aveva requie nè prudenza.


La tradizione rivoluzionaria di Palermo era questa: contare sul concorso della campagna, cioè poter disporre nelle campagne vicine di persone coraggiose e sicure, le quali potessero raccogliere intorno a se altri elementi, egualmente coraggiosi e risoluti, raccozzati soprattutto fra quei contadini nomadi onde son ricche le campagne siciliane: contadini e facinorosi, risoluti a formare squadre, a combattere la forza pubblica, a saccheggiare uffici doganali e, penetrati che fossero in Palermo, fare man bassa sulle amministrazioni governative, unendosi alla mafia cittadina. Per loro la rivoluzione voleva dire distruzione di ogni freno politico e legale. Le squadre furono tanta parte dei moti palermitani in ogni tempo, fino ai più recenti, dopo il 1860; ma se ne furono la forza, ne furono anche la debolezza, perchè gli elementi torbidi che entrarono a farne parte, non poteano, per le loro pretensioni, essere facilmente tenuti a segno. Il Comitato s’illudeva da principio di poterne fare a meno, ma non era possibile, e se n’ebbe la prova in un primo tentativo d’insurrezione, fatto nell’ottobre del 1859 da Giuseppe Campo, il quale, dichiarando di poter disporre di molta gente in Bagheria, ave-