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enfiteusi, governate dalle antiche leggi. Allora la situazione pareva peggiore della presente per l’inalienabilità dell’immenso patrimonio delle chiese, delle corporazioni religiose e di altri corpi morali: dico pareva, perchè questa grande manomorta rispondeva a fini sociali e morali che la rivoluzione, quando divenne governo, distrusse senza discernimento. Garibaldi e i suoi prodittatori la rispettarono, perchè, tranne che richiamare in vigore la legge del 1848 contro i gesuiti e i liguorini, non fecero di più. Bisognava distinguere molto e procedere per gradi, ma invece si confuse tutto, si soppresse tutto, ignorandosi che la manomorta in Sicilia era diversa da tutte le altre.

Il principe di Castelcicala continuò, come aveva fatto Filangieri, ad applicare il sistema economico del governo di Napoli. Così, se nell’ottobre del 1849 Filangieri non aveva creduto pericoloso permettere l’esportazione di granoni e legumi, e nel luglio del 1S53 aveva ritenuto utile vietare l’uscita dei grani, dell’avena, degli orzi e più tardi quella delle patate, Castelcicala, finito il pericolo, permetteva l’esportazione delle patate e delle paste lavorate; e se proibiva quella dei bovini e degli ovini, permetteva la libera importazione dei cavalli e degli animali destinati al macello ed esentava dal dazio d’entrata per un anno i formaggi, e per tre mesi i carboni. La libera importazione degli animali da macello era necessaria, perchè nei sedici mesi di rivoluzione e di guerra se n’era fatto grande consumo, I raccolti e i bisogni della popolazione continuavano ad essere regolati dalla bilancia doganale. Nella misura dei dazi di esportazione vi era trattamento di favore per la Sicilia. Così, quando nel 1856 venne ridotto il dazio di esportazione sugli olii di oliva, il dazio sugli olii di Sicilia fu della metà inferiore a quello, che colpiva gli olii del continente. Era favorita la marina mercantile nazionale, perchè questi dazi salivano del doppio se l’esportazione si compiva con legni esteri. Grazie al Florio l’esportazione era più che triplicata. Gli zolfi, il sommacco, i vini, gli olii, le paste, gli agrumi erano i prodotti che l’Isola esportava, e il governo, come si è veduto, ne favoriva l’esportazione, prendendo alla sua volta dai contribuenti siciliani il meno possibile. Essi si lagnavano a torto per questa parte. La Sicilia, che paga oggi centoventi milioni d’imposte, ne pagava allora poco meno di ventidue; e se mancava di ferrovie e di strade,