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più segno di vita e lo legò solidamente al palo con forti correggie di cuoio.

— Fallo ritornare in sè, poi gli straccerai le carni a colpi di corbach.

— Sta bene!

Il miserabile si avvicinò al braciere, levò uno degli jatagan, prese i pollici dell’arabo e li serrò attorno al ferro incandescente.

La carne scoppiettò a quel contatto e per l’aria si sparse un nauseante odore di bruciaticcio. Abd-el-Kerim guizzò come fosse stato toccato da una scarica elettrica; un rantolo soffocato gli rumoreggiò in fondo alla gola. Riaprì gli occhi girandoli all’intorno.

— Eccolo svegliato, ripigliò il carnefice deponendo il ferro.

« Devo mettere in opera il corbach?

— Non ancora, disse Ahmed. Lascialo che rinvenga del tutto.

Infatti Abd-el-Kerim rinveniva. Suo primo moto fu quello di torcere i polsi tentanto di rompere i legami, poi si abbandonò addosso al palo gemendo lugubremente. Le dita calcinate al contatto del ferro rovente dovevano farlo soffrire atrocemente.

— Fathma!... mormorò lo sventurato con voce semispenta. Fathma!...

Ahmed digrignò i denti e la sua ira accrebbe smisuratamente a quell’invocazione disperata.

— Ah! maledetto! brontolò egli. Ancora la chiami? Ma non la vedrai più, te lo giuro. Quando uscirai dalle mie mani per passare in quelle del tuo nemico, sarai un uomo rovinato per sempre.

S’avvicinò alla sua vittima e toccandola in mezzo al petto:

— Mi riconosci? gli chiese.

— Che mi hai fatto? rantolò Abd-el-Kerim. Io soffro... soffro atrocemente... mi hanno arso le mani...

— Mi riconosci? ripetè Ahmed, avvicinandosi vieppiù.

— Sì, ti conosco... vendicativo uomo.