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il 2 novembre, alla testa di oltre duecentomila guerrieri movevasi ad incontrarli e li massacrava tutti a Kasghill.

Liberato il paese da tutti quei prepotenti che il 1876 l’avevano invaso o rovinato, il povero fakir, diventato terribile guerriero, si ritirava sotto El-Obeid dove lo troviamo attualmente nell’umile sua capanna.

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Ahmed Mohammed, nel vedersi innanzi il tenente arabo, si era arrestato colla fronte aggrottata, accarezzandosi nervosamente la nera e folta barba. I suoi occhi che mandavano lampi di viva luce con riflessi a due colori, si fissarono in quelli dell’arabo che si sentì affascinato nell’egual guisa che gli uccelli si sentono affascinati dallo sguardo dei serpenti.

— Chi sei? chiese Ahmed, dopo alcuni istanti di muta contemplazione.

L’arabo a quella interrogazione si scosse; un fremito passò sul suo volto che divenne livido.

— Abd-el-Kerim, articolò egli.

— Sei arabo, se non m’inganno.

— Sì, sono arabo, nativo di Berber.

— Sai chi io sono?

— Mohammed Ahmed.

— No, disse il profeta, Sono il Mahdi!

— Come vuoi.

— Non lo credi?

Abd-el-Kerim non rispose, ma sostenne impavido lo sguardo di fuoco che gli slanciò Ahmed.

— A quale esercito appartenevi? chiese il Profeta cangiando tono.

— A quello di Dhafar pascià.

— Sicchè tu sei partito da Chartum?

— Non lo nego.

— Dove ti hanno fatto prigioniero?

— Presso El-Dhuem.

— Sai cosa è accaduto dell’armata di Hicks pascià?

— L’ignoro.