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lito. Clara è rapita nelle membra formose del
Salvatore e gemendo ne conta le piaghe, le lividure,
gli allentatisi mùscoli. A poco a poco,
un divino sbigottimento la stringe; palpitale il
cuore, come al beato Filippo, a scoppiarle. L’allucinazione
è completa. La pupilla del Cristo si
è inumidita, e l’amoroso suo fàscino posa, insiste
su lei, sembrano anzi le pieghe fumare,
sembra la vita riguizzar sotto pelle, mentre
le pàllide labbra si ricòlman di sangue e tra le
labbra già s’intravede con il candore dei denti,
la più desiata parola. E Gesù protende le braccia.
Il pannolino si erge. Clara cade in deliquio.
Quando rinsensa, è nella sua cella, sul letto. Può ancora il volto di lei rassomigliarsi alla neve, ma a neve con l’impronta del piede. Le si apportò un canestrino di cibi, ebbe nausee; le offersero sperditrici misture; indignata le rifiutò. Ma la celletta si disadorna. Scompàjono i pochi amici di Clara... la baciatissima imàgine della sua Santa, il Gesù-bimbo di cera, i secchi suoi mazzolini — fiori di primavere che non torneranno mai più, inutilmente adaquati dalla rugiada del pianto — la catinella stessa di latta, che ella gioiva di tenere sì tersa per ispecchiàrvisi. E la celletta s’è dal di fuori barrata. Clara non può veder che da lungi i favoriti luoghi del suo vaneggiare... e quel cortiletto profondo, dai glàuco-oliva riflessi, dove piange la luna con si amorosa tristezza e cresce l’erba, infalciata, attorno un pozzo col secchiolino, in-