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cacciare seco dai palchi. Il tenore fu vinto. La
duchessa non lo abbandonò più, lo rimorchiò
trionfante in Europa, si dedicò tutta — ella cui
fino il pasto affamava, né dieci Pròcoli imperatori
avrèbber saziata — al di lui ùnico amore.
¡O deprecàbile fedeltà! ¡o malaugurata fortuna!
¡o vulvea rabbia! ¡o cantàridi! Ei ben presto cadeva,
senza voce e midolle, fra le incontentàbili
braccia.
Qual pianto, quale disperazione accompagnasse la fine immatura del «divino usignuolo» è più fàcile a dire che a credersi. La morte in Grecia di Adone fu a paragone una festa. Elda coniò il suo furioso dolore in ogni metallo, lo scolpi, lo stampò, lo dipinse; lo affisse su tutti i muri, lo trascinò per tutte le vie della città, fra l’àrder fumoso dei ceri e l’imperversare delle campane, fra il pèndere a bruno delle bandiere e il tuonar del cannone, rullando cupi i tamburi, stridendo le trombe e miagolando le vérgini — in un funerale lungo parecchie miglia, di cui prima parte era lei, asiaticamente sdrajata nel suo carrozzone di pompa, in gran toletta di lutto, e con al fianco un cicisbèo di consolazione, negro.
E, dopo due dì dal mortorio, cosi contavano i villici di Rocca Adelardi, era venuta alla Rocca una squadra di apparatori con candelabri ed addobbi e tanta gramaglia da tappezzarne, entro e fuori, la chiesa della parrochia. Le vuote occhiaie della torre maestra avéano allora ria-