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stità dei generali che è il carattere degl’ingegni elevati. Il vero è che la Divina Commedia è poema eminentemente storico, dove vitupera ed esalta da uom di parte; irato persecutore, di tutto fa arme alla vendetta: e coll’autorità che danno l’ira, l’ingegno, la sventura, insieme coi dolori e i rancori suoi, eternò le glorie e le sventure d’Italia1. Tutti gli uomini e le cose che lo circondavano chiama ad austera rassegna, traendone concetti di speranza o di vendetta, attinge alla fede, alla scienza, all’amore supreme aspirazioni dell’uomo; e nel concetto come nella forma unisce sublimità e vulgarità, amore ed ira, fede e discussione, contemplazione e operosità; ma la mal cristiana rabbia onde tesse l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna bellezza. E poichè fra gl’Italiani fu sempre grande il numero di questi infelici «che la patria non rivedono se non in sogno», Dante fu immedesimato ai patimenti di tutti, preso come tipo di quanti soffrono tirannia ed ingiustizia.

Ma è ben più che un’allegoria politica un poema, cui poser mano e cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel Prometeo, che Shakespeare atteggiò nell’Amleto, che Faust cercò risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore, fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo e l’abjezione di mali continui e inevitabili.

In fondo a tutti i fatti trovasi un mistero; l’origine e la destinazione loro: giacchè li vediamo attuarsi e procedere, e non sappiamo nè perchè nè verso dove. Oggi vi applichiamo mille opinioni, presumendo nell’infallibilità del senno individuale; allora quel mistero veneravasi.

Un primitivo peccato, una conseguente infelicità, una necessaria espiazione erano i canoni dominanti nel medioevo, e questi atteggiò Dante. Sapienza, onnipotenza, bontà appartengono unicamente a Dio: all’uomo il peccato e, punizione di esso, i mali, che affliggono

  1. Dante, nel Convivio, inveisce contro «coloro, che per malvagia disusanza del mondo, hanno lasciato la letteratura a coloro che l’hanno fatta, di donne, meretrice. A vituperio di loro, dico che non si debbono chiamar letterati; perocchè non acquistano la letteratura per suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari e dignità; siccome non si deve chiamar citarista, chi tiene cetara in casa per prestarla per prezzo e non per usarla per sonare». I, 9.
Cantù.Illustri Italiani vol. I. 2