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asserti sufficienti a convincere della faticosa ascensione i miei giovani amici e i loro increduli compagni, allora...”

“Allora,?” facemmo tutti ansiosi.

“Allora,” continuò il canonico fregandosi le mani e lanciando dalla bocca semi-aperta una densa voluta di fumo, “io pagherò a tutti la colazione e la farò seguire, a debita e necessaria distanza, da un pranzo coi fiocchi.”

Un applauso unanime salutò la fine della limpida proposta.

Non c’era che d’accordarci intorno alle prove e si decise súbito di pretenderne una sola, decisiva, la testimonianza della guida che doveva aver diretta la spedizione.

“Eccola!” tonò Don Flaminio rizzandosi e tendendo il braccio poderoso verso un angolo della sala dove pipava, beatamente, mastodontico e silenzioso il signor Schenatti.

Quello, così bruscamente disturbato, si tolse la pipa dalla bocca, sputò, si lisciò con la grossa mano i baffi ampii e spioventi, compresse con il pollice il dossetto di cenere che gli si era formato sopra l’orificio della pipa, e, finalmente, guardò noi tutti in faccia con i suoi occhi grandi, grigi, severi e aspettò che scemasse un poco la nuova esplosione di interiezioni e di grida, dovute alla parola ed al gesto dell’impetuoso canonico.

“Sì,” potè finalmente dire il burbero re del Disgrazia, con la sua voce ruvida e forte, “sì, ho condotto Don Flaminio su su fino alla cima!”