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quanto fuori dall’umano, e comprendo, e invidio la natura degli angioli.

O se qualcuna di quelle forme vaporose di donna, angioli umani, che tante volte hanno sorriso ai miei sogni d’oro, fiorisse dinnanzi a me, sul monte, circonfusa di sole, d’azzurro; ed io ammirassi tutto quanto ne circonda, guidato dalla soavità del suo gesto e del suo viso; se, le nostre mani congiunte, ella mi avviasse nel cielo e gli spiriti nostri si unissero lassù, sciogliendosi da questo involucro di carne, per rivestirsi d’azzurro, e migrassero di stella in stella, ed ognuna ne donasse un raggio di luce, o allora come saprei descrivere la bellezza dei cieli, e, ritornato sul mondo, la magnificherei!

Com’è bello sognare così!

Ma non mi si lascia continuare; il canonico, il curato, la guardia, Ottorino e l’altro marmocchio hanno già incominciata la discesa, e mi chiamano ad una voce, da di sotto una grande arcata di verde, la strada lunga e bella che conduce a Campaccio.

Li raggiungo a passo di corsa, e arrivo appena a tempo per frenare e mitigare e comporre un azzuffio sorto fra Don Luigi e lo Spini.

L’uno vuole inaffiarsi le gorguzzole col vino, l’altro non lo vuole assolutamente permettere, intanto che essi comicamente si bisticciano, io metto qualche parola di pace, e, per troncare la discussione che minaccia di farsi interminabile, spedisco innanzi, a buon passo, la donna che reca in una gerla le nostre provviste, e le ordino di non fermarsi che a Musella.