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capitolo decimoprimo. 67

me ne fece mai motto, e credo che S. E. non mi tacerebbe la menoma cosa del mondo. Ma tieni poi per fermo, che la mattina appresso S. E. il duca gridò tre volte al suo cameriere, Jernigan, Jernigan, Jernigan, portami i miei legáccioli.

Ma prima di tutto io doveva informarti, o lettore, della malacreanza del signor Burchell che seduto colla faccia rivolta al fuoco intanto che stavano le donne favellando, al finire d’ogni sentenza esclamava oibo! il qual motteggio spiaceva a ciascuno di noi, e sopiva alcun poco il brio della conversazione.

Madama. Oltre di che non v’ha cenno, o mia cara Skeggs, nel sonetto fatto in quell’occasione dal dottore Burdock. Oibò!

Madamigella. Stupisco davvero, perchè scrivendo egli solamente per suo trattenimento, non omette mai ne’ suoi versi la minima cosellina: ma gli avrebbe que’ versi V. E. da potermeli mostrare? — Oibò!

Madama. Viscere mie, degg’io portar meco di sì fatte cose? E capperi come è bello il sonetto! Io me ne intendo ancor io di poesia; so di giudicarla, o almeno so quel che mi piace. Fui sempre ammiratrice de’ poemetti del dottor Burdock, perchè, se ne levi i suoi versi e quelli della nostra cara contessa d’Annover-Square, non sortono tuttodì dalle stampe che buassaggini le più insulse della terra, le quali non hanno nè un micolino di quel sale che ricercano le orecchie nobili come le nostre. — Oibò!

Madamigella. Vostra Eccellenza dovrebbe almeno eccettuare le di lei proprie produzioni inserite nel Magazzino delle Dame. Già non pensate voi certo che in quell’opera siavi cosa alcuna che puzzi di plebaglia. Eh! ma temo che non avrem più nulla da quel lato per nostra sventura. — Oibò!

Madama. E perchè questo? Sai che la compagna che mi leggeva mi ha abbandonata per isposare il capitano