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― Sarà molto tardi.

― Non molto. Saranno le sei, forse.

― Io ho licenziata la mia carrozza ― ella soggiunse. ― Vi sarei tanto grata se mi faceste prendere una vettura chiusa.

― Permettete ch’io vi lasci qui sola, un momento? Il mio domestico è fuori.

Ella assentì.

― Date voi stesso l’indirizzo al vetturino, vi prego: ― Albergo del Quirinale.

Egli uscì, chiudendo dietro di sè la porta della stanza. Ella rimase sola.

Rapidamente, volse li occhi intorno, abbracciò con uno sguardo indefinibile tutta la stanza, si fermò alle coppe dei fiori. Le pareti le sembravano più vaste, la vôlta le sembrava più alta. Guardando, ella aveva la sensazione come d’un principio di vertigine. Non avvertiva più il profumo; ma certo l’aria doveva essere ardente e grave come in una serra. L’imagine di Andrea le appariva in una specie di balenìo intermittente; le sonava nelli orecchi qualche onda vaga della voce di lui. Stava ella per aver male? ― Pure, che delizia chiudere li occhi e abbandonarsi a quel languore!

Scotendosi, andò verso la finestra, l’aprì, respirò il vento. Rianimata, si volse di nuovo alla stanza. Le fiamme pallide delle candele oscillavano agitando leggere ombre su le pareti. Il camino non aveva più vampa, ma i tizzoni illuminavano in parte le figure sacre nel parafuoco fatto d’un frammento di vetrata ecclesiastica. La tazza di tè era rimasta su l’orlo del tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona