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matite con qualche tocco di pastello, acquerellati con bistro su tratti a penna, acquerellati con inchiostro di China, su carta bianca, su carta gialla, su carta grigia. Talvolta la matita sanguigna par che contenga porpora; la matita nera dà un segno vellutato; il bistro è caldo, fulvo, biondo, d’un color di tartaruga fina.

Tutte queste particolarità le ho dal disegnatore; provo uno strano piacere a ricordarle, a scriverle; mi par d’essere inebriata di arte; ho il cervello pieno di mille linee, di mille figure; e in mezzo al tumulto confuso vedo pur sempre le donne dei Primitivi, le indimenticabili teste delle Sante e delle Vergini, quelle che sorridevano alla mia infanzia religiosa, nella vecchia Siena, dai freschi di Taddeo e di Simone.

Nessun capolavoro d’un’arte più avanzata e più raffinata lascia nell’animo un’impressione così forte, così durevole, così tenace. Quei lunghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli sottili e reclinati; quelle fronti convesse e sporgenti; quelle bocche piene di sofferenza e di affabilità; quelle mani (o Memling!) affilate, ceree, diafane come un’ostia, più significative di qualunque altro lineamento; e quei capelli rossi come il rame, fulvi come l’oro, biondi come il miele, quasi distinti a uno a uno dalla religiosa pazienza del pennello; e tutte quelle attitudini nobili e gravi o nel ricevere un fiore da un angelo o nel posar le dita sopra un libro aperto o nel chinarsi verso l’infante o nel sostener su’ ginocchi il corpo di Gesù o nel benedire o nell’agonizzare o nell’ascendere al Paradiso, tutte quelle cose pure, sincere e profonde inteneri-