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e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell’amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell’esercizio dell’amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere a punto gli cattivavano l’animo delle donne. Egli aveva in sè qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l’uomo di una notte erculea e l’amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell’arte d’amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia.

“Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?„ Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta.

L’aveva incontrata la mattina innanzi per la via de’ Condotti, mentre ella guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga assenza oscura. L’incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione viva; ma la publicità della strada li aveva costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un’aria grave, un po’ triste, guardandola negli occhi: ― Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. ― Ella aveva risposto, semplicemente: ― Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa.