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fisico il legame morale; tutto il sonetto viveva e respirava come un organismo indipendente, nell’unità. Per passare da un sonetto all’altro egli teneva una nota, come in musica la modulazione da un tono all’altro è preparata dall’accordo di settima, nel qual si tiene la nota fondamentale per farne la dominante del nuovo tono.

Così componeva, or rapido or lento, con un diletto non mai provato; e il luogo raccolto, in verità, pareva escito dalla fantasia d’un solitario egipane dedito ai carmi. Il mare, mentre più cresceva il giorno, balenava fra i tronchi come negli intercolunnii d’un portico di diaspro; gli acanti corintii eran come le coronazioni abbattute di quelle colonne arboree; nell’aria, glauca come l’ombra d’un antro lacustre, il sole gittava a quando a quando strali e anelli e dischi d’oro. Certo, Alma Tadema avrebbe ivi imaginata una Saffo dal crin di viola, seduta sotto l’Erma di marmo, poetante su la lira di sette corde, in mezzo a un coro di fanciulle dal crin di fiamma pallide e intente a bevere dall’adonio la compiuta armonia di ciascuna strofe.

Quando egli ebbe condotti a termine i quattro sonetti, trasse un respiro e li recitò senza voce, con una enfasi interiore. L’apparente rottura del ritmo nel quinto verso dell’ultimo, causata dalla mancanza di un accento tonico e quindi d’una posa grave della ottava sillaba, gli parve efficace e la mantenne. Quindi scrisse i quattro sonetti su la base quadrangolare dell’Erma: ogni faccia uno, in quest’ordine.