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volto assumevano dall’estremo pallore una tenuità quasi direi psichica. Ella non era più nè la donna seduta alla mensa degli Ateleta, nè quella al banco delle vendite, nè quella diritta un’istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un’espressione di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po’ convulse. Alcuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli spiriti più ottusi o fatui un turbamento, una inquietudine, un’aspirazione indefinibile. Chi aveva il cuor libero imaginava con un fremito profondo l’amore di lei; chi aveva un’amante provava un oscuro rammarico sognando un’ebrezza sconosciuta, nel cuore non pago; chi recava entro di sè la piaga d’una gelosia o d’un inganno aperta da un’altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire.

Ella s’avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini. All’estremità della galleria, si unì ad un gruppo di dame che parlavano vivamente agitando i ventagli, sotto la pittura di Perseo e di Fineo impietrato. Eranvi la Ferentino, la Massa d’Albe, la marchesa Daddi-Tosinghi, la Dolcebuono.

― Perchè così tardi? ― le chiese quest’ultima.

― Ho esitato molto, prima di venire, perchè non mi sento bene.

― Infatti, sei pallida.

― Credo che riavrò le nevralgie alla faccia, come l’anno scorso.

― Non sia mai!