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sentirono il contagio. Ancora una volta la donna, la piccola donna incosciente e sensuale, aveva tentato di insudiciare l’ora divina dell’uomo che voleva straripare in azione e affascinare la vita con un gesto di bellezza. Ancora una volta l’opaco volume della femminilità cieca, egoista, si gettava col peso di un cadavere davanti al passo dell’uomo proiettato verso la zona della libertà creatrice.

Franco trascinò la sua amante, pallida, stralunata, scarmigliata, giù per le scale, sulla strada, la scaraventò in una vettura, diede al vetturino l’indirizzo del più vicino Ospedale.

La donna aveva un tremito febbrile, le labbra erano tutte sbavate dell’immondo veleno. La gente si fermava, in Via Ludovisi, a osservare quella strana coppia. Franco non le risparmiava le ingiurie.

— Cretina! Idiota! Incosciente! Hai vomitato il tuo veleno di vipera sulla mia idealità! È bestiale, quello che hai fatto! È una cosa insulsa, ipocrita, volgare, bestiale! Bisogna saper morire, non fingere di voler morire!

All’Ospedale operarono la lavanda dello stomaco, con una serie interminabile di bicchieri colmi di un emetico biancastro, che un infermiere grosso e inesorabile come un giustiziere riempiva in un gran catino di ferro