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grande bufera, sia che non vi abbia partecipato direttamente ma di riflesso. Esso creò una infinità di drammi individuali: altri ne risolse, altri ne travolse. Ebbe una potente azione trasformatrice, non lasciò nulla intatto, non permise che uno stato d’animo o una situazione sentimentale, formatisi avanti la primavera del ’15, si mantenessero indisturbati nello spirito di coloro che venivano rapiti dalla vertiginosa velocità degli avvenimenti.

Franco Arbace, come tanti altri, si fece due domande. La prima: «Che cosa rappresenta per me la guerra?» La seconda: «Che devo io fare in presenza della guerra?»

In quei giorni di febbre, in quei giorni di risoluzioni virili, egli se le ripetè cento volte. Non riuscì a trovare subito una risposta, nè all’una nè all’altra. E alla fine decise di aspettare che le risposte maturassero da sè. Tanto, il manifesto della mobilitazione non lo riguardava ancora.

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Maura Demauris, l’amante di Franco Arbace, era tutto ciò che restava delle sue complicate macchinazioni di giovine sensuale: troppo poco, quasi nulla, per un uomo come lui. A diciannove anni, incominciando