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CAPITOLO XIV.

Le Sicilie.


In una calda serata di estate, sul tardi, sir John, Lucy e Antonio sedevano sulla loggia attenti al canto degli usignuoli, e mirando il corso della luna lentamente cadente. E mentre il suo splendido disco, fermatosi un momento sulla cima della collina di Bordighera, lanciava onde di luce tremule come fiamma a traverso quella folta corona di alberi, Lucy proruppe in un leggier grido di piacere:

— «Non pare un vulcano?» domandò; «io non ne ho veduti mai, ma immagino che dev’essere come quello,» e indicava la collina.

— «Avete ragione,» disse Antonio; «gli somiglia tanto che mi par quasi di guardare la mia vecchia amica, l’Etna, ma in miniatura. Mi ricordo quelle notti felici, quando osservavo seduto sulla terrazza della mia casa in Catania i segni solenni di un’imminente eruzione, e sognavo desto gli splendidi sogni dell’avvenire. Il presente,» continuò con un mesto sorriso, «ha così poca rassomiglianza con i miei sogni d’allora, come somiglia l’infocato liquido alla fredda lava modellata dai lazzaroni in fantastici ornamenti per guadagnar qualche grano dai forestieri.»

Questi detti provocarono molte domande da parte di Lucy, e molte risposte del Dottore intorno l’Etna e Catania e la Sicilia; nelle quali Antonio ebbe agio di stimmatizzare con forti parole quello che egli chiamava il mal governo della sua infelice isola natía. Sir John non lo poteva udire senza emettere le sue proteste: — «Via via, siate giusto,» opponeva il Baronetto; «i re, in una questione che è di vita o di morte per essi, non avranno dunque nemmeno la facoltà di difendersi?»

— «Fate la domanda nel senso opposto, e voi colpirete meglio nel segno,» replicò Antonio! «Una nazione non avrà dunque la facoltà di proteggere e difendere la sua libertà e la sua indipendenza?»

— «Certamente,» disse il Baronetto, «ma voi vi avanzate troppo, troppo davvero. Se i re qualche volta sono spinti agli estremi, di chi è la colpa? Certo del partito col quale, non è possibile alcuna transazione; — dico del partito