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236 IL BUON CUORE


cenzo Monti, ed è di accompagnamento a un «idilio» del maestro intitolato Adda. «Voi mi avete più volte, scrive il Manzoni da Lecco il 15 settembre 1803, ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere ch’io non sono nè l’uno nè l’altro, vi mando questi versi. Ma il principal fine di essi si è il ricordarvi l’alta mia estimazione per voi, la vostra promessa, e il desiderio con cui vi sto attendendo. Credo inutile avvertirvi che sono opera di un giorno; essi risentono pur troppo della fretta con cui son fatti. Nulla meno ardisco pregarvi di dirmene il parer vostro, e di notarne i maggiori vizi». Desiderio del giovane al quale Vincenzo Monti volle accondiscendere, con una lettera di risposta da Milano respiranti la bonomia del grande uomo, travagliato dalla cattiva salute, dai quotidiani decotti che si deve sorbire, noiato dalle cautele che deve usare per tenersi su e non peggiorare, e occupato dalla stampa iniziata del suo Persio. Ma, insomma, gli dice che i versi son belli e respirano non sa che di vergiliano e campagnuolo. «Sempre più mi confermo, conclude, che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po’ più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali». Questa al Monti e un’altra al corcirese Muxtoditi, amico suo di giovinezza e fin da allora noto agli intimi come giovine meraviglioso, sono le sole lettere che abbiamo del Manzoni nel 1803. Anche gli anni che seguono sono molto scarsi, sia perchè il grosso dell’epistolario andò perduto, sia perchè il Manzoni fin da ragazzo fu scrittore di lettere molto parco; gentile e tenace nelle amicizie, ma pigrissimo nello scrivere, della bella e onesta pigrizia dei geni elaborati o meditativi. Nel 1805 ritroviamo il nostro a Parigi, insieme con la madre, fra le cui braccia scrive al Monti avere ritrovata la felicità: «Io non vivo che per la mia Giulia, e per adorare e imitare con lei quell’uomo che solevi dirmi essere la virtù stessa (Carlo Imbonati). I tuoi modi cortesi, la tua bontà tanto rara in quei pochissimi, cui il sentimento naturale, e la pubblica opinione fa superiori agli altri, non usciranno mai dal mio cuore». — E’ noto a questo riguardo che donna Giulia figlia del celebre marchese Cesare Beccaria, aveva sposato nel 1782 Pietro Manzoni, e, avutone il figlio Alessandro nel marzo 1785, s’era da lui legalmente separata nel 1797. Carlo Imbonati, ispiratore del Parini nell’ode Torna a fiorir la rosa, aveva poi stretta amicizia con donna Giulia, fino a istituirla erede universale delle proprie sostanze. Fatto che ebbe in compagnia sua un viaggio in Inghilterra, prese stanza con lei a Parigi, dove appunto morì il 15 marzo 1805 in età di 52 anni, profondamente pianto da donna Giulia, la quale alla su citata lettera di Alessandro aggiunse un poscritto: «Ed io pure, caro Monti, voglio aggiungere due righe a quelle del mio Alessandro. Oh voi, che lo amate, voi, che veramente lo conoscete, giacchè proporgli per modello l’adorato mio Carlo, voi misurate l’amore immenso che gli porto, da quello immenso amore, e da quel dolore
sacro, insanabile che sento e pruovo per lui. Oh! voi non mi direte già di distrarmi, nè di consolarmi, voi non potete immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nella eternità, già incominciata per me, perchè fissata sopra di lui. Parlatemi dunque, o Monti, perchè io con voi possa parlare. Che gli altri pronuncino il vostro nome con ammirazione e con sentimento di nazionale orgoglio, per me esso non esce dalle mie labbra, che dopo esser passato sul mio cuore».

Discussioni col Fauriel.

Del 9 febbraio 1806 è la prima lettera del Manzoni veramente importante per la storia del suo ingegno e dei suoi studi, diretta al Fauriel, l’amico di madame de Staél, e uno dei più felici illustratori della storia e della letteratura contemporanea della Francia meridionale. «Quando il Manzoni conobbe il Fauriel, scrivono gli editori dell’epistolario manzoniano, questi aveva ormai e per lungo tempo fondato la sua vita sentimentale sull’amore della M.sa di Condorcet; questa coppia s’era anzi affratellata all’altra, poco dissimile, dell’Imbonati e di donna Giulia. La vita del Fauriel è così dal i8o6 intimamente collegata con quella del Manzoni». Il quale avendogli inviato i versi per l’Imbonati, n’ebbe in risposta una affettuosa lettera, tra critica e famigliare, alla quale egli a sua volta risponde: «La cognizione, gli scrive, ch’io sapeva aver voi delle italiane lettere fu in me cagione di timore nel presentarvi quei miei versi: ed è questa stessa ragione che mi rende più lusinghievole (sic) l’accoglienza che ad essi avete fatto. Dopo la soddisfazione di aver reso un omaggio qual ch’ei si sia alla memoria di un uomo, ch’io venero come virtuosissimo, a cui son grato come all’angelo tutelare di mia madre, e ad uno che tanto mi amò; dopo la soddisfazione di aver fatto a questa mia dolce madre ed amica quello che gli (sic) poteva far di più grato, la vostra lettera è il più gran piacere che quei versi m’abbiano procurato». Dopo questo preambolo, il Manzoni comincia a parlare, da gran letterato, dell’arte sua, che era allora quella di far versi. I giudizi che di lui riportiamo sullo sciolto e sull’esametro virgiliano, rivelano in lui qualche cosa di molto più profondo che non la semplice informazione letteraria e di più vivo che non la solita tradizione. Ciò ch’egli dice del verso virgiliano è più intimamente sentito e più liberalmente e signorilmente espresso che non quello stesso che ne sentiva il Monti. Abbiamo a che fare non con uno scolaro della scuola classica, ma con un artista del nuovo grande romanticismo che in cospetto ai classici non ottunde anzi affina la propria squisita sensibilità. In lui la continuità dell’endecasillabo e quasi discendenza sua dal vario e versatile esametro latino, non è astrattamente e dogmaticamente affermata; è sentita invece vivacissimamente.

«Quello che voi dite degli sciolti, e il modello che proponete di questa maniera di verseggiare, fa vedere quanto conoscete l’indole della poesia italiana. Lo sciolto parmi veramente il più bello dei vostri metri, quando è ben maneggiato. Parmi ch’esso abbia, come l’esame-