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IL BUON CUORE 229


LE DONNE AVIATRICI

in un libello del secolo XVIII


Chi vi abbia assistito più non dimentica la spettacolo suggestivo che presentava la folla irrompente e acclamante l’aviatore Beaumont quando scese col suo snello monoplano sullo spazio verde dell’aerodromo dei Parioli. E se v’è alcuno che abbia avuto in quel momento la forza e la calma di stornare lo sguardo dal giovane vittorioso, per guardare quel cerchio vivente che gridava la vittoria di lui, forse non dimentica più, oltre il momento emozionante e solenne, neppure l’espressione profonda di passionato entusiasmo di qualche bel volto femmineo più degli altri proteso nell’ansia di veder bene il fortunato aviatore, e la sua viva macchina fremente che aveva filato con vertiginosa rapidità fra i due specchi azzurri del mare e del cielo italico, per giungere fino alla radiosa città. Attimi fugaci di bellezza, di oblio quelli degli entusiasmi della gente che rimanendo ben ferma e sicura sulla terra festeggia e saluta quelli che batton le vie del cielo, ma attimi di vera complessa e meravigliosa bellezza. Ogni egoismo e ogni pusillanimità è in quegli istanti travolto o miracolosamente trasformato e il desiderio delle gesta che par sempre così eroica, abbenchè si abbia ormai pressochè la consuetudine di simili eroismi, brilla come un fulgido rapido barbaglio d’oro entro lo sguardo di tutti; ma sopratutto nelle vive pupille delle giovani spettatrici.

In esse forse quel cupido lampo guizzante è più intenso perchè è più raramente consentito alle donne sfidare l’aereo pericolo; forse esse non colgono che il lato poetico quasi fantastico della nuovissima conquista; o forse, chi sa? — palpita nelle pupille commosse un sentimento di tenerezza per le spose, per le madri, per le sorelle degli aviatori che veggono la loro vita intessuta di aspettazioni ansiose e di gioie prodigiose; di agonie dolorose e di bagliori trionfali. Certo io vidi fra gli aspettanti ansiosi dell’Aerodromo mani guantate di donna strappare i papaveri ai prati, le vitalbe alle siepi per gettarle intorno al vincitore e alla macchina snella che è in qualche modo parte integrale della personalità dell’aviatore; vidi porpuree labbra tremare, e lacrime solcare guancie pallide di emozione; e udii una signora che con le mani ancora tutte ingombre di fiori di campo retrocedeva un poco — forse schiva di quell’incomposto tumulto del momento — dal folto gruppo acclamante, mormorare assorta come lontana da tutto e da tutti: — Oh! felice la tua sposa in quest’ora!

La frase soave sussurrata da labbra che non sapevano di essere ascoltate, quel delicato senso di fratellanza femminina sorgente dall’invocazione leggiadra, quell’impulsività muliebre fatta di slancio subitaneo e di tenerezza delicata, pronta, desiderosa anzi, di riversarsi con abbondanza non rattenuta su quanto suscita l’ammirazione, tutto riunito stranamente con il riconoscimento e la glorificazione di una meraviglia scientifica essenzialmente moderna mi fece pensare a una
nuova anima di donna quale i nostri tempi si dice l’abbiano foggiata, e quale le donne di un secolo, di cinquanta anni fa, forse, non saprebbero più comprendere.

Capisco che per arrivare a questa conclusione non era proprio necessario assistere all’emozionante arrivo di Beaumont, vedere i papaveri e le margherite recisi da mani femminee intorno all’eroe dell’ora radiosa, udire una frase benedicente! Ma è certo che tutto ciò contribuì in quel momento memorabile a farmi ripetere mentalmente uno dei luoghi comuni più abusati in tutti i discorsi, che toccano, da presso o da lontano, qualche questione femminile.

Senonchè una serie di combinazioni mi porta oggi sott’occhio un vecchio libretto ingiallito, salvato dallo smarrimento da un colto collezionista di antiche memorie e di stampe antiche concernenti sopratutto la storia e la vita umbra. Il libello interessante porta infatti come luogo di stampa il nome di Perugia, e come data il 1784. Si tratta di una commediola di un solo atto, donata a un tal Vincenzo Cherubini dall’autore Annibale Mariotti (il cui nome non compare nel frontespizio ma risulta da una piccola interessante nota manoscritta), mentre questi riuniva memorie ed aneddoti intorno alle origini del civico teatro perugino, da lui stesso ideato.

Mente chiara e geniale, doveva avere il Mariotti (abbenchè non mostri nel vecchio libretto grandi doti di commediografo), se riuscì a un’impresa così geniale quale la creazione dello squisito teatro Morlacchi e se volle scegliere come soggetto del suo breve lavoro un fatto che doveva interessare sopratutto gli scienziati e i più audaci progressisti del tempo.

Si celebrava allora in Francia il sensazionale esperimento dei Fratelli Montgolfier, e al Mariotti parve utile e piacevole istruire il popolo della sua città sull’importanza e sulla ragione della nuovissima scoperta, riportando sulla scena in un brillante dialogo sceneggiato episodi e commenti che accompagnarono la prima prova dei due valorosi meccanici inventori.

Ove si pensi che l’invenzione della Mongolfiera fu il primo sforzo vittorioso dell’ingegno umano messo a conflitto con le forze fino allora invincibili dello spazio aereo, non è difficile il supporre come la sorpresa, l’ammirazione delle genti fosse, dinanzi a quella prova fortunata, maggiore forse e più fervida di quella, pur così viva, che in noi destarono e destano tuttor alle meraviglie dell’aviazione; per quanto le due cose siano poggiate sopra principi scientifici affatto diversi, e il ricordo della mongolfiera ci faccia ora sorridere, come quello di un pallido dagherrotipo, di fronte a una delle mirabili fotografie moderne. Ma la psicologia degli spettatori delle Tuileries di quasi un secolo e mezzo fa, non era e non poteva essere molto dissimile nel rapimento e nell’ebrietà dell’entusiasmo di quel che possa essere oggi dinanzi a qualche brillante gara di aviazione.

L’audace frase che appare oggi rigorosamente esatta: L’uomo è giunto a volare! non pareva impropria neppure agli ammiratori dei primi areostati. E il bozzetto