Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 21 - 20 maggio 1911.pdf/6

166 IL BUON CUORE


Mercurio, di Venere, della Terra e di Marte gli costarono venti anni di lavoro.

Una mole così colossale di fatiche, voleva una fibra eccezionale e una energia singolare: e Urbano Leverrier, infatti, lavorava quotidianamente fino a notte alta; l’alba appena gli concedeva brevi riposi.

E il lavoro lo fiaccò: la salute ne ebbe a risentire conseguenze gravissime, ed una dolorosa irritabilità gli corrose l’anima e i nervi. Preposto alla direzione dell’Osservatorio, non apparve la persona più adatta a questo ufficio: e cogli inferiori, coi superiori, col governo, con tutti, talvolta, si addimostrò di una strana, inesplicabile asprezza. Quando Mac Mahon gli mandò a dire un giorno di preparare l’Osservatorio ad una visita dello Scià di Persia egli rispose, causticamente, con un rifiuto apodittico: — Maresciallo, rispose, la scienza non fa lume ai selvaggi!!!

Morì nel 1877, non vecchio, colla forte fibra spezzata dal lavoro ciclopico: «In lui — disse il Tresca all’Accademia delle Scienze — sulla morte di lui si vedrà non senza commozione che lo studio del cielo e la fede scientifica non avevano fatto che consolidare la fede viva del cristiano.»

Il 5 giugno del ’76 Leverrier mandò all’Accademia l’ultimo fascicolo della sua grande opera con le tavole di Giove e Saturno: «Durante questa lunga impresa perseguita per trentacinque anni — egli disse — ci fu necessario sostegno una delle più grandi opere della creazione e il pensiero che essa veniva confermando in noi le verità imperiture della filosofia spiritualista.»

Fu il suo commiato: il saluto della sua fede e della sua vita operosa. Di lui potè dire un altro grande scienziato spiritualista, segretario, allora, dell’Accademia scientifica, il Dumas: «Egli, scrivendo l’ultima parola dell’ultima pagina della sua opera immortale, potè all’ultima ora di sua vita, mormorare piamente: Nunc dimittis servum tuum, Domino

ALLA MOSTRA DI CASTEL S. ANGELO


(Continuazione e fine, vedi n. 19).


— Vedano, questa è la carcere del Cellini, che essendo esso grande artista gli fu concessa anche un’altra camera dove disegnava. Quì c’è luce; perché queste carceri non sono sotterranei essendo il loro livello più alto dello stradale....

Il borghese visitatore respira....

— Ma questa è la peggiore carcere di Castello; è quella dei condannati a morte; ha una specialità: ci manca l’aria e la luce. Era un silos, cioè un granaio, ma nel 600 fu ridotta a prigione; ci rinchiusero Stefano Porcari....

Guardo spaventato il custode: sta bene.... Ma la luce ne sospinge: ed è luce di primavera romana, fuori, in alto: c’è un ampio cerchio di meraviglie che cinge il castello: un giro di loggie e di loggiati corona la massa romana e medioevale della fortificazione, attorno al
maschio, salutato dall’angelo; il corpo ciclopico della mole s’ingentilisce in alto, in un ricamo squisito di Rinascimento; le feritoie, gli spiragli si spalancano, inarcandosi, in loggie, in balconi, in terrazzi, su Roma, sul cielo di Roma....

È una visione magnifica: il loggiato di Pio IV è la più meravigliosa mostra del mondo: una fuga di archi ci spezza e ci ricompone il panorama dell’Urbe in una mirabile vicenda di trittici congiunti in giro, nell’ambulacro: il Quirinale, il Pantheon, il Campidoglio, un trittico che non ha confronti. E poi, ancora, più lontano, in archi spezzati, due trionfali cupole romane, S. Agnese, S. Andrea: due trionfi in una sola cornice; e più lontano, una fascia d’arco, appena, su cui domina un cielo d’oro, e un verde cupo, acceso: il Gianicolo.

Le salette erano nè più nè meno che prigioni colle volte in chiave, decorate: oggi raccolgono piccole mostre di ceramiche, di cristalli, di disegni pinelliani, di piccola scultura napoletana: sono collezioni elementari, non sono materiali sufficienti per una esposizione vera propria: sono la suppellettile del Castello di Roma: niente altro.

Perchè la grande e mirabile esposizione è qui, in questa mole che fu tomba e fortezza, restituita — grazie al lungo ed operoso affetto del colonnello Borgatti, ideale e perfetto castellano moderno — alla purezza delle sue linee, alla squisita nudità delle sue fibre. La sommità del maschio, che è il diadema finissimo del Castello, era fino a poco tempo fa circondata di casette di casupole lietamente godute da caporali e da soldati in riposo.... Perché Castel Sant’Angelo è rimasto fino al 1905 caserma, galera e prigione militare.

Negli appartamenti pontifici che occupano il piano superiore del maschio, si raccolgono luci e silenzi regali: il contrasto vi conduce da una prigione oscura ad un loggiato severo ad una vicenda di sale sontuose: la furia delle armi e degli armati dava tregua, di tanto in tanto, alle delizie dell’arte; e non ci fu artefice, ospite di papi generosi, che non deponesse, passando, fiori di bellezza su questo ferreo cuore di Roma: Nicolò V, con Rosellino, Callisto III col Coccola, Innocenzo VIII e Sisto IV con Baccio Castelli, Alessandro VI con Sangallo il Vecchio, Giulio II con Bramante, Leone X e Clemente VII con Michelangelo, Paolo II con Castriota e con Sangallo il Giovine, Paolo IV con Orsini e Sarvegnano, Urbano VIII con Rossi, con Bernini: l’ingegneria militare s’intreccia all’architettura aulica, alla decorazione sontuosa, alle morbide tessiture damascate.

Hanno disposto quassù una collezione d’armi, di stoffe bizantine ed umbre, una magnifica sala michelangiolesca: con abbozzi, ricordi, documenti di scuola dell’artista grandissimo: sulla sommità della mole, i ricordi del colosso; e dalle finestre, il miracolo di lui, la cupola di San Pietro.

Due ultime stanze, ancora, di Paolo III: un gran nitore di marmi e d’oro, una solennità regale nell’altezza della volta grande a cassettoni romani: e siamo sulla estrema torretta di un castello, di una fortezza, di un sepolcro, di una galera!...