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— Non comprendo assolutamente nulla — disse finalmente Yanez, rialzandosi. — È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta: chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero.

Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infiniti sarmenti.

Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s’avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo.

— Da che cosa proviene questo baccano? — gli chiese Yanez.

— È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore — rispose il pilota. — Saranno certamente moltissimi.

— Degli elefanti? E chi può avere spaventato quei colossi?

— Degli uomini, io credo.

— Che i dayachi si avanzino da ponente? È di là che il fragore proviene.

— È quello che pensavo anch’io.

— Che cosa mi consigli di fare?

— Di allontanarci al più presto.

— Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?

— È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.

— Avanti dunque! — comandò il portoghese, con voce risoluta. — Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayachi.

Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotang ed i calami, mentre il fragore aumentava rapidamente d’intensità.

Il pilota doveva aver indovinato giusto. Tra il fracasso assordante prodotto dall’incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti.

Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d’uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.

Dovevano essere state le bande dei dayachi a metterli in rotta.

Yanez ed i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.

Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guar-