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porta, dietro le finestre e il balconcino. Per ciò don Silvio rimaneva un po’ incerto se quei colpi che gli era parso di udire alla porta di casa provenissero dal rabbioso furore del vento o da qualche persona che veniva a chiedere per un moribondo la sua opera spirituale.

Di là, la vecchia sua sorella lo chiamava:

— Silvio! Silvio! Non senti? Picchiano.

Scesi con un lume in mano gli scalini di gesso della scaletta, egli avea domandato da dietro la porta:

— Chi siete? Che volete?

— Aprite, don Silvio! Sono io.

— Oh, signor marchese! — egli esclamò stupito, riconoscendolo alla voce.

E posato il lume sur uno scalino, toglieva la stanghetta di sorbo che sbarrava traversalmente la porta di entrata.

Una folata di vento spense il lume.

— Lasciate fare a me, — disse il marchese, richiudendo sùbito la porta e puntellandola forte con una mano, mentre con l’altra cercava tastoni la stanghetta che don Silvio aveva appoggiato in un angolo. — Ho i cerini, — soggiunse, dopo di averla rimessa trasversalmente a posto, introducendone i capi nelle due buche laterali che dovevano tenerla fissa.

E riaccese il lume.