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Dovevano imboccarlo, indurlo a inghiottire con minacce, ingozzarlo talvolta come una bestia. Opponeva resistenza, serrava i denti, agitava furiosamente la testa — Oh! Oh! Ah! Ah! — e il ritmo di questi urli si udiva fin dalla spianata del Castello, ora che il dottore aveva fatto trasportare il marchese in una stanza più larga e più ariosa, dove si era potuto rizzare comodamente l’apparecchio per la doccia, arrivato il giorno avanti.

Steso sul letto, con la camicia di forza, il demente sembrava avesse intervalli di calma, allorchè con gli occhi sbarrati, fissi in qualcuna delle sue continue allucinazioni, borbottava accozzaglie di suoni che avrebbero voluto essere parole; ma era calma illusoria. La forza dell’allucinazione lo domava, travagliandolo internamente, ed egli usciva da quello stato scoppiando in urli più violenti, più forti, in esclamazioni di terrore: — Eccolo! Eccolo!... Mandatelo via! Ah! Ah! Oh! Oh! Il Crocifisso!... Rimettetelo al suo posto, giù, nel mezzanino! Oh! Oh! Ah! Ah! — E i nomi di Rocco Criscione, di Neli Casaccio, di compare Santi di Mauro, facevano capire il tristo cumulo di impressioni che gli aveva sconvolto il cervello, dove la pazzia già si mutava in ebetismo, senza speranza di guarigione.

Lo zio don Tindaro, per la sua età, non resisteva alla tortura del miserando spettacolo; e il cavalier Pergola, rimasto in casa Roccaverdina, dopo quindici giorni non ne poteva più, anche perchè doveva