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in mente casi uditi raccontare da popolane (allora l’avevano fatta sorridere d’incredulità), casi di malìe, preparate in una torta, in una frittata dalle quali erano stati prodotti o una lenta malattia di sfinimento e poi la morte, o un rinfocolamento di passione da confinare con la pazzia. No, non avrebbe permesso che il marchese mangiasse di quei cacicavallo, e lei non li avrebbe neppure toccati. Chi lo sa? Tante cose che paiono fiabe, sono vere; altrimenti non si racconterebbero. E, a poco a poco, si affondò talmente in questo sospetto, che esso assunse per lei evidenza di certezza. Sentiva diffondersi, a traverso dei vimini della cesta, la maligna influenza colà rinchiusa, e invaderla e inquinarle il sangue e attossicarle la fonte della vita. Ebbe la tentazione di aprire la lettera, di strapparla anche senza leggerla, giacchè fin le parole colà scritte potevano avere qualche malefica potenza. Resistè; intanto ordinava alla serva di mettere cesta e lettera in un ripostiglio nascosto.

— Che ti ha detto quell’uomo? — le domandò.

— Dice che sua zia ha sempre su le labbra il nome del padrone, benedicendolo.

— Niente altro?

— Dice che vorrebbe venire a baciargli le mani, e che verrà un giorno o l’altro. E mi ha domandato se il padrone ha già avuto un figlio.

— Che gliene importa?