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lotte municipali, quantunque, secondo la sua espressione, non si arrivasse per mezzo di esse a cavare un ragno da un buco.

Scadeva di carica il Sindaco. Menato pel naso da due o tre consiglieri furbi e prepotenti che non avevano voluto essere della Giunta per levare le castagne dal fuoco con la zampa altrui, egli non osava di muovere un dito senza aver preso prima l’imbeccata da loro. Appunto i nomi di essi erano stati sorteggiati per la rinnovazione del quinto dei consiglieri. Bisognava impedire che venissero rieletti, o almeno far entrare nel Consiglio, invece di qualcuno di loro, il marchese che sarebbe poi stato il personaggio più importante tra quei pecoroni, capaci soltanto di dire sì o no come veniva loro imposto.

Nome, censo, onestà, che altro poteva chieder di meglio il governo per nominare sindaco il marchese? E la cuccagna di quei signori sarebbe finita di botto.

— Il marchese di Roccaverdina — esclamava il dottor Meccio — non è un burattino da muoversi secondo che quei signori tireranno i fili da dietro la scena.

— Avrete un plebiscito, cugino! — soggiungeva il cavalier Pergola.

E a quattr’occhi, quando il dottor Meccio non era più là, con le sue fisime clericali, a trattenerlo di parlare, si sfogava: