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parte prima 191

non ammette un’anima umana capace di vivere fuori della sua prigione materiale, del tutto sconosciuta ai seguaci del Buddha; e si è trovato che nirvâna equivale ad immortalità, o a luogo di pace.1

Alcuni esempi tratti dall’esame che il D’Alwis fa del Dhammapada, tradotto da Max Müller, libro che appartiene ai Sûtra pitaka, verranno in appoggio a quanto ora ho detto. Il versetto 21 del Dhammapada, nella citata versione, è reso a questo modo: «La riflessione è il cammino che conduce alla Immortalità (o al Nirvâna), la spensieratezza è il cammino della morte. Coloro che riflettono non muoiono; coloro che non pensano sono come fossero già morti». E quindi il traduttore si domanda: che cosa abbia inteso dire il Buddha, quando ha chiamata la riflessione il cammino della immortalità? e ne deduce che si fa ivi allusione al Nirvâna, come a uno stato d’esistenza eterna, tutt’altro che annullamento totale. — Se fosse possibile, osserva a proposito il D’Alwis, fare astrazione da quello che sino dalla infanzia abbiamo sempre sentito ripetere, che, quantunque noi morti, pure lo spirito nostro sarà immortale, non sarebbe per nulla difficile lo intendere il concetto del Buddha. Non c’è dubbio che la parola Pali amata significhi uno stato di esistenza perpetua; ma quando si pensa che le scritture buddhiche affermano ad ogni passo, come si può vedere nello stesso Dhammapada (vers. 277 ed altrove) che «ogni cosa è transitoria» e che «nulla vi è di immortale», apparisce chiaro, che amata è preso nel senso primitivo, che avea innanzi che quella parola passasse a significare «immortale, eterno». Amata, da a, particella negativa, e mata, «morte» vale «non-morte, senza-morte, libero


  1. Conf. d’Alwis, op. cit. p. 69.

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