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NOTE VIII 243

campestre, l’abbandono e la facile gioia: vi si confondono il piú ingenuo rossor dell’infanzia, e i primi turbamenti del pudore. Il poeta vi ha dipinta l’infanzia dell’Orfeo dei pastori; e nella sua pittura c’è un’aura di Raffaello».

Le osservazioni del Sainte-Beuve sono sostanzialmente giuste, anche per chi non possa interamente partecipare la sua grande ammirazione. Un Raffaello. Ma un Raffaello stanco, in cui la purezza del disegno non basti a compensare una certa languidezza di colore, una certa mancanza di tratti caratteristici.

Accanto alla esaltazione del Sainte-Beuve, bisogna poi ricordare la diffidenza di un gran numero di filologi, i quali giunsero al punto di negare a Teocrito la paternità dell’idillio, per attribuirla ad un ignoto poeta, che qualcuno chiamò poi da strapazzo. Inutile specificare le loro ragioni, che spesso, come troppo spesso avviene delle ragioni filologiche, sono veri «aegri somnia». Ma anche per essi, l’irrazionale ma vero e profondo fondamento della diffidenza dove’ consistere nell’innegabile povertà di colore che questo idillio presenta di fronte agli altri migliori di Teocrito. Né so che sia stato rilevato il carattere d’intrusione dei due versi:

Cosí con versi alterni cantarono i due giovinetti:
e all’ultime canzoni cosí diede il tono Menalca.

Sembra proprio una di quelle glose riassuntive che nei moderni libri scolastici si introducono, per «collegare» i «brani scelti» dei poemi celebri. E non contribuisce certo a dissipare i dubbi e l’incertezza.

Tra i pregi essenziali di questo idillio, si deve annoverare il bando assoluto della mitologia e di ogni altra cianfrusaglia erudita.