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232 TEOCRITO

dice Pindaro, vi ricorse per prima, quando Giasone venne a Colco:

Cípride saettatrice,
qui pria, giú d’Olimpo ai mortali
recò la torquilla, l’augello deliro,
varïopinto, costretto di laccio insolubile
ai quattro raggi d’un cerchio.

E veniamo ai personaggi. Qui il giudizio è concorde ed entusiastico; e si cita volentieri un giudizio di Racine; il quale avrebbe asserito «qu’il n’y a rien de plus vif et de plus beau dans l’antiquité que La Magicienne de Théocrite».

Il giudizio, quando lo vidi, la prima volta, riportato dall’Adert, mi sembrò iperbolico; e volli ricercarlo nella sua fonte, nella sua forma genuina. L’Adert mi mandò al Souillé, il Souillé al Didot, il quale dice che, invece di pronunciare un giudizio proprio, riferirà quello di Racine, riferito da Longepierre. E Longepierre, infine, garantisce di averlo udito con le proprie orecchie.

In sostanza, il vino di Racine è stato travasato per molti e molti fiaschi. Ne ho piacere, per non trovarmi in troppo disaccordo col gran tragediografo. Questo idillio è certo bello; ma neppur lo direi il piú felice di Teocrito. Né lo sfondo, né i personaggi vi hanno il rilievo dei «Mietitori», per esempio, o de «L’amor di Cinisca»; per non parlare delle «Siracusane». E non vedo proprio che la passione di Simèta sia espressa con tale intensità da oscurare (Adert) il divino frammento di Saffo. Del resto, giudichi il lettore.

E già, Simeta non è una eroina passionale, quale sembrano vagheggiarla tutti i commentatori. Non è sorella di Saffo, bensí delle tante donnette che troviamo in Teocrito: di Prassínoe, della civettuola Galatea, della puerile Cinisca, che versa lagrime grosse come mele, al solo udire il nome dell’adorato suo spilungone.