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XX PREFAZIONE


si incominciò a considerare la forma come qualche cosa di per sé stante, che potesse aver valore intrinseco anche all’infuori del contenuto. Principio pestifero, e non c’è bisogno di dimostrarlo.

E altre tendenze della medesima risma ripetono veramente dal momento alessandrino la loro fede di nascita.

Per esempio, la supervalutazione dell’arte, e massime in ciò che è piú propriamente mestiere. Trovare begli epiteti, arrotondare bei ritmi, sembrò l’opera piú eccelsa e meritoria a cui potesse dedicarsi un uomo di comprendonio.

E, come conseguenza, il superbo dispregio di quanti non fossero all’altezza delle loro dotte e frigide elucubrazioni. Assai prima di Orazio, Callimaco aveva intonato. Il suo «Odi profanum volgus»:

Il ciclico poema detesto, e non amo la strada
     che la gente a casaccio conduce qua e là.
Anche l’amasio aborrisco che a tutti si dona, e non bevo
     dalla fontana: tutto quanto è volgare, schifo.

Con la gente che muove a schifo, non ci si sta volentieri. E cosí, avvenne in Alessandria e negli altri centri di produzione poetica quello che avvenne e avviene sempre quando gli artisti si reputano incompresi: la secessione. I poeti si chiusero in una torre d’avorio.

Ossia, loro la credevano una torre d’avorio. Ma che cosa realmente fossero il Museo d’Alessandria e serbatoi affini, lo vide ben chiaro il sillografo Timone:

Molti in Egitto dalle molteplici razze nutriti
sono saputi imbrattapapiri, che mai, delle Muse
dentro la gabbia chiusi, desiston dall’accapigliarsi.

Dunque, non torri d’avorio, bensí gabbioni, dove melliflui e concordi in apparenza, i «poeti» si detestano cordialmente, si beccano l’un l’altro, come i capponi di Renzo.