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PREFAZIONE XIX


a cercare in Shelley, che so, in Goethe, o in quale pur vogliate dei laghisti inglesi o dei romantici tedeschi.

Negli Alessandrini, poi, a cercar bene, difettano cosí la qualità come la quantità. In quale poeta sono queste grandi orge di «sentimento della natura?» — In Teocrito — risponderete. È vero; ma Teocrito va considerato in via eccezionale. Ci torneremo subito.

Il buon gusto? Se ne piccavano assai, e Callimaco non si stancava di pontificare. Ma, stringi stringi, si limitava a gittate il biasimo sui componimenti troppo lunghi: celeberrima la sua sentenza: «Libro grosso malanno grosso»1.

E insieme con la brevità, raccomandava la semplicità di tòno. E ci ricamava il suo bravo sarcasmo:

Non pretendete da me che un carme di grande rimbombo
io scriva: a Giove spetta tuonare, e non a me.

Sanissimi princípi. E finché si trattava di applicarli ai poeti perdigiorni suoi coetanei, che s’illudevano di continuare Omero, aveva ragione da vendere. Il guaio è che, sotto sotto, tirava ad applicarli anche ad Omero, per tener su i principii e il prestigio della sua «bella scuola». Il che non deve poi indurci a troppa meraviglia, perché anche il piú solenne filologo dei nostri giorni ha dichiarato che la fastidiosissima Corinna gli rifinisce piú d’Omero. Il guaio è che, senza dubbio, l’abbondanza inesauribile e l’«os magna sonaturum» sono le due caratteristiche costanti ed ineliminabili dei poeti di genio.

Rimane la famosa perfezione della forma. Nessuno potrebbe ragionevolmente negare che le opere degli Alessandrini fossero veri ceselli (toreutà). Ma è anche vero che da questo momento

  1. Μέγα βιβλίον, μέγα κακόν. Anche questa espressione divenne proverbiale.