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— Signorina — mi sussurra — un pò di carità. Guardi in che stato sono! — E con un atto sublimemente impudico, alzò un lembo della gonnelina stracciata e mi fece vedere che era scalza e ignuda, in pieno febbraio.

— Aspetta! — dissi posando sopra uno scalino la cartella e il paniere della merenda — si rimedia subito. — Mi alzai i panni, mi sciolsi la sottana di flanella, mi levai calze e scarpe e in men che si dice ne vestii la povera che mi guardava come estatica senza dire una parola.

Poi, lesta lesta, salii i miei tre piani e suonai il campanello con quanta forza avevo. Il ghiaccio della pietra mi dava allo stomaco. Ricorderò sempre finchè vivo la faccia della Giovanna e il suo grido desolato che fece accorrere la mamma. Io ero già a sedere sul letto, col cappello in capo e i piedi ignudi, ciondoloni.

Esposi brevemente il caso, abbassando il capo sotto la imminente valanga dei rimproveri che io reputavo inevitabili. Sorpresa del silenzio della mamma che intanto mi aveva coperto i piedi con un lembo della coperta, la guardai e le vidi gli occhi pieni di lacrime.

— Oh mamma! — le dissi — ho fatto dunque molto male! — E lei, stringendomi forte sul cuore:

— Hai fatto bene... Ma non lasciarti trasportare più così dal tuo buon cuore. Potresti imbatterti in qualche imbroglione, eppoi...

— Eppoi, mamma?

— Eppoi, vedi? Non si può disporre che di quanto è assolutamente nostro: frutto, cioè, del nostro guadagno o delle nostre ricchezze particolari: e la tua robina appartiene... al babbo!...