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con inquietudine: poi si lasciava cader seduta sopra una panchina, accanto a un grosso ciliegio e durava delle mezz’ore a cantare con una nenia melanconica questi quattro versi:

     Dalla chiesa al cimitero
Ci correva un braccio scarso
Addio, bella, addio, ti lascio
Io per te vado a morir

La mangiavo con gli occhi, io, quella povera creatura giovane che non poteva più divertirsi, nè ridere, nè andare al teatro, nè fare il chiasso con le ragazze della sua età.

In casa raccontavano che si chiamava Annina e che era impazzata perchè le era morto il damo in tre giorni.

Annina, povera Annina, il vecchio Manicomio non è più che un ammasso di rovine: sull’orto, sulla vigna, sulle lunghe corsìe tenebrose si distendono al sole, oggi, strade ridenti, fiancheggiate da eleganti palazzine e da giardini in fiore ... Ma tu, povera visione dei miei giovani anni, sei ritornata alla vita, alle speranze, all’amore? Ti scalda il sole di nuovi affetti? O sei scesa, pallida vittima del destino, nel silenzio eterno della tomba, là dove s’acqueta ogni desiderio, là dove dai poveri frali consunti, lo spirito immortale s’inalza, lento, ma costante, verso le altezze superne, tramutandosi in fiore, in profumo, in una stilla di rugiada, in un raggio di sole, in un fremito d’ala, in un cantico senza fine?

Dove sei andata, o Annina, o cara, o indimenticabile visione dei miei giovani anni?