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potevo io avere? Cinque o sei anni tutt’al più. Mi rendevo conto, perfettamente, dei mali di petto che fanno tossire con sì dolorosa insistenza i poveri infermi: intendevo la febbre, i dolori artritici, le eruzioni cutanee. Ma la pazzia, no, non giungevo a capirla. Che voleva dire quel sentirsi bene, quel mangiare e bere come fanno tutti, e non esser più quelli di prima? E il non riconoscer più le persone care? E il ridere scioccamente e il pianger senza ragione? E l’aver delle manìe, delle fissazioni strane, come quella di non volere stare al sole per timore d’esser liquefatti e di tenersi stretta la testa con tutt’e due le mani per impedirle di rotolare a terra?

Infastidivo i miei con domande incessanti alle quali, pur troppo, non si poteva dar mai una risposta chiara, soddisfacente.

Spesso la mamma, una bellissima ma nervosissima donnina magra, che pativa un po’ anch’essa di quel male misterioso a cui la scienza ha dato oggi il nome di neurastenia, m’imponeva silenzio impazientita, dicendomi con voce tremante: — Sta zitta, per amor di Dio! Non senti che il parlar di certe cose mi fa male? —

Non sentivo nulla, io: e malgrado alcune piccole correzioni corporali che mia sorella, un bel tipo di ragazza fresca e sana, perfettamente equilibrata, credeva necessario di infliggermi, tornavo al mio posto d’osservazione in cucina, ritta sopra un panchetto, dietro l’imposta della finestra.

Mi ricordo che quasi ogni giorno, verso l’Ave Maria, scendeva nell’orto, in compagnia d’una inserviente, una bella ragazza alta, svelta, dal viso pallidissimo, come di cera. Si guardava da prima intorno con sospetto,