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sua precarietà nei luoghi dove abitava, e non se n’affliggeva. Per questo sentimento, che si trasfondeva lieve e vago nel mistero impenetrabile di tutte le cose, ogni cura, ogni pensiero gli erano insopportabilmente gravi. Figurarsi, ora, come schiacciante dovesse riuscirgli il discorso di Capolino, che si aggirava fervoroso intorno alle imprese fortunate del Salvo, a un gran disegno che costui meditava, insieme col direttore delle sue zolfare, l’ingegnere Aurelio Costa, per sollevar le sorti dell’industria zolfifera, miserrime da parecchi anni.

— Coscienza nuova, la sua, — diceva Capolino. — Lucida, precisa e complicata, don Cosmo, come un macchinario moderno, d’acciajo. Sa sempre quel che fa. E non sbaglia mai!

— Beato lui! beato lui! — ripeteva don Cosmo, con gli occhi socchiusi, in atto di rassegnata sopportazione.

— E credentissimo, sa! — seguitava Capolino. — Religioso!

— Beato lui!

— È una meraviglia come, tra tante brighe, riesca a trovar tempo e modo di badare anche al nostro partito. E con che impegno ne ha sposato la causa!

Ma, poco dopo, Capolino cambiò discorso, accorgendosi che don Cosmo non gli prestava ascolto. Gli si fece più accosto, gli toccò il braccio e aggiunse piano, con aria mesta:

— Quel povero Ninì! Son sicuro che ci piange, sa? per quel po’ di baja che gli abbiamo dato a tavola. Innamoratissimo, povero figliuolo! Ma la ragazza, eh! purtroppo, non è per lui....

— Fidanzata ad altri? — domandò don Cosmo, fermandosi