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Roberto Auriti era passato in terza linea. In quasi tutte le sezioni quello Zappalà aveva raccolto più voti di lui, mettendolo, così, fuori di combattimento, d’un tratto spiccio e sprezzante, come si butterebbe da canto con un piede uno straccio inutile, ingombro più che inciampo.

A un certo punto, quando arrivò il telegramma da Grotte, ch’era uno dei maggiori centri zolfiferi della provincia, con l’esito della votazione quasi unanime per lo Zappalà, parve che costui dovesse finanche contender seriamente la vittoria al Capolino ed entrare in ballottaggio, non ostante il suffragio entusiastico che il campione clericale aveva raccolto a Girgenti, in compenso della grave ferita riportata nel duello.

Il Trigona, per coprire con pietoso inganno la verità, voleva attribuire principalmente la sconfitta all’èsito di quel duello inconsulto, alle maniere troppo violente del Verònica, forestiere, e al contegno arrogante d’uno de’ suoi padrini, quel signor tale, spadaccino, che aveva urtato e indignato veramente la cittadinanza girgentana, non ostante che il Selmi, già partito per il suo collegio, avesse fatto di tutto per attenuare l’indignazione.

Il canonico Agrò approvò col capo, in silenzio. Non sapeva perdonare al Verònica di avergli mandato a monte, con quella indegna piazzata, il piano strategico meditato e disegnato da lui con astuzia così sottile. E quell’altro cavaliere Giovan Battista Mattina! Mandato a Grotte a sostenervi la candidatura dell’Auriti, aveva fatto la parte di Giuda, mettendosi d’accordo all’ultimo momento coi popolari.

— Ma chi è costui? — domandò col solito piglio feroce Mattia Gangi. — Che rappresenta? come