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Più penosa ancora era la vista di qualcuno che non s’era accorto, o fingeva di non accorgersi tuttavia delle sue perdite, e lo mostrava nella cura della propria persona rinvecchignita, da cui spiravano, compassionevolmente affievolite, le arie e le maniere d’un’altra età.

Ciascuno s’era adattato alla meglio alla propria sorte, s’era fatto un covo, uno stato. Sebastiano Coràulo, avvocato di scarsi studii, fervido improvvisatore di poesie patriottiche negli anni della Rivoluzione, giovine allora animoso, impetuoso, con una selva di capelli scarmigliati, era entrato per favore come segretario negli ufficii della Provincia, e si raffilava ora sul cranio con miserevole studio i quattro lungi peli incerottati che gli erano rimasti; s’era ingrassato enormemente; aveva preso moglie; ne aveva avuto cinque figliuoli, tutte femmine arrabbiate di trovar marito. Marco Sala, condannato a morte dal governo borbonico, e che pur non di meno tante volte dall’esilio era venuto in Sicilia, travestito da frate per diffondere segretamente i proclami del Mazzini; s’era dato prima al commercio dello zolfo; aveva avuto fortuna per alcuni anni: poi un tracollo; e per parecchio tempo aveva mantenuto col giuoco la famiglia; alla fine aveva avuto il posto di magazziniere dei tabacchi. Rosario Trigona, che nella giornata del 15 maggio del 1860, a Girgenti, mentre Garibaldi combatteva a Calatafimi, era uscito solo, pazzescamente, con altri quattro compagni, la bandiera tricolore in una mano e uno sciabolone nell’altra, in contro ai tre mila uomini del presidio borbonico, e che, inseguito, tempestato di fucilate, era scampato per miracolo e aveva raggiunto a piedi Garibaldi vittorioso, correndo di giorno e di notte e sfuggendo all’esercito regio che