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Nel turbine.


Rimasto solo, Francesco D’Atri si premè forte ambo le mani sul volto. Il lucido cranio gli s’infiammò sotto le lampadine elettriche della lumiera che pendeva dal soffitto. Si trattenne ancora un pezzo lì, nello scrittojo, a passeggiare col viso disfatto dalla stanchezza, alterato dai foschi pensieri m cm era assorto, lisciandosi con la piccola mano grinzosa e indurita dagli anni quella lunga barba canarina in contrasto così penoso e ridicolo con tutta l’aria del volto e la gravità della persona. Come mai non si accorgeva egli stesso, che quella barba nelle circostanze presenti, era una smorfia orrenda?

Non se n’accorgeva, perchè da un pezzo ormai Francesco D’Atri non aveva più la guida di sè, nè più lui soltanto comandava in sè a sè stesso. Non eran più suoi gli occhi con cui si guardava; eran d’un altro Francesco D’Atri, che dallo specchio gli si faceva incontro ogni mattina con aria rabbuffata e di sdegnoso avvilimento nel vedergli gonfie e ammaccate le borse delle pàlpebre, e tutte quelle rughe e quel bianco attorno alla faccia. Nè questo era il solo Francesco D’Atri che si rifacesse vivo in lui, nella senile disgregazione della coscienza, e lo tirasse a pensare, a sentire, a muoversi, com’egli adesso non poteva, non poteva più, con quelle membra e li cervello e il cuore imbecilliti dall’età.

Egli era ormai un povero vecchio, che volentieri si sarebbe rannicchiato in un cantuccio per non smuoversene più; ma tanti altri lui spietati, che gli sopravvivevano dentro, approfittando di quel suo