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se le avessero assicurato l’impunità. Già aveva veduto il primo effetto dell’arrivo: Ciccino e Lillina Vella se n’erano andati in giro per Roma con la cuginetta pallida e smarrita, mettendo lei da parte fin dal primo giorno.

Scelto male, dunque, il momento per un discorso serio!

— Debbo partire? — domandò subito, per tagliar corto. — Parto anche domani. Senza chiacchiere. Ma sola, no!

— E con chi? — fece Capolino. — Io....

— Tu hai le sorti d’Italia su le braccia, lo so! — esclamò Nicoletta. — Come potrebbe sedere la Camera, domani, se tu mancassi?

— Ti prego, — disse Capolino, con un gesto delle mani, che significava freno, prudenza, da un canto, e dall’altro, sdegno di avviare il discorso, senza scopo, per una china facile, per quanto sdrucciolevole. — Io sono qui per fare il mio dovere.

— Anch’io! — rimbeccò, pronta, Nicoletta. — Non ti pare? Tu, di deputato; io, di moglie. Lo dice anche il sindaco: La moglie deve seguire il marito. Caro mio, se la pigli così!... Lascia stare i doveri, non mi far ridere! Te l’ho detto: tu, caro mio, hai perduto da un pezzo in qua la bussola! Parliamoci come prima, o piuttosto, intendiamoci come prima, senza parlare affatto, per il tuo e per il mio meglio! Bada, Gnazio, tu sei stufo, ma io più che più, e capace.... non so, capace in questo momento di commettere qualunque pazzia. Te n’avverto!

— Santo Dio, ma perchè? — gemette Capolino con le mani giunte.

— Ah, perchè? — gridò Nicoletta, andandogli incontro, vampante d’ira e di sprezzo. — Mi do-