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suscitare altro fuoco col fuoco delle armi. Ma avesse almeno avuto soldati abbastanza, da fronteggiare l’impeto delle popolazioni irritate! Gli scarsi presidii, bestialmente incitati a sparare su le folle inermi, si vedevano costretti, subito dopo, a rinserrarsi nelle caserme; e allora la folla, inselvaggita dagli eccidii, restava padrona del campo e assaltava furibonda i municipii e vi appiccava il fuoco. Lo sgomento intanto si propagava per tutta l’isola; sindaci e prefetti e commissarii di polizia perdevano la testa; e dove si sarebbe andato a finire?

Queste cose disse, rivolto specialmente al cognato Francesco Vella, al Capolino e ad Aurelio Costa; volle dedicare alle signore il racconto d’una recente prodezza compiuta da cinquecento donne in un villaggio dell’interno della Sicilia, chiamato Milocca. Per la speciosa denunzia di un mucchio di concime sparso non fuori, ma nelle terre medesime d’un proprietario, che non aveva voluto arrendersi ai nuovi patti colonici dei contadini del Fascio, la forza pubblica aveva tratto in arresto iniquamente e sottoposto a processo per associazione a delinquere il presidente e i quattro consiglieri del Fascio stesso. E allora le donne del villaggio, in numero di cinquecento, indignate dell’ingiustizia e della prepotenza, s’erano scagliate come tante furie contro la caserma dei carabinieri, ne avevano sfondato la porta e tratto fuori i cinque arrestati; poi, ebbre di gioja per la liberazione dei prigionieri, avevan condotto in trionfo su le braccia, per le vie del paese, uno dei carabinieri e le armi strappate loro dalle mani.

Donna Rosa, Nicoletta Capolino e Lillina approvarono festosamente la vittoria di quelle donne gagliarde; ma don Flaminio parò le mani gridando:

— Piano, piano! Aspettate! L’allegrezza è stata