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momento in fra due, se dovesse condurre a termine l’impresa, o lasciar Renzo in cura dei due birri, ed egli correre dal capitano di giustizia a render conto dell’emergente. — Ma, — pensò poi tosto, — mi si dirà ch’io sono un dappoco, un vile, e che doveva eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Maladetta la pressa! Malann’aggia il mestiere! —

Renzo era in piedi; i due satelliti, l’uno da un fianco e l’uno dall’altro: il notaio accennò a costoro che non gli facessero troppo forza, e disse a lui: “da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.”

Renzo pure sentiva, vedeva e pensava. Era egli ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra per le tasche. “Ohe!” diss’egli, guardando il notaio con un piglio molto significante: “qui c’era dei soldi e una lettera. Signor mio!”

“Vi sarà dato ogni cosa puntualmente,» disse il notaio, “adempiute che sieno quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.”

“No, no, no,” disse Renzo, scrollando il capo: “questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.”

“Voglio mostrarvi che mi fido di voi: