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quei due bravacci, che seduti a un deschetto, giucavano alla mora, gridando tutti e due ad un fiato e versandosi or l’uno or l’altro a bere d’un gran fiasco posto fra loro. Questi pure adocchiarono i sopravvegnenti; e uno dei due specialmente, tenendo sospesa in aria la destra con tre grosse dita sparpagliate, e la bocca squarciata per un gran “sei” che ne era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo ben bene, indi fece d’occhio al collega, poi a quel della porta, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di tutte quelle smorfie: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’ostiere guardava in faccia a lui, come per attender gli ordini: egli lo fece venire con sè in una stanza vicina e comandò da cena.

“Chi sono quei forestieri?” gli chiese poi a voce bassa, quando quegli tornò con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.

“Non li conosco,” rispose l’ostiere, spiegando la tovaglia.

“Come? nè anche uno?”

“Sapete bene,” rispose ancora colui, stirando ad ambe mani la tovaglia sul desco,