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mostrò più che mai saldo nelle proprie idee. Questa fu la sua salvezza; perchè i progressisti trionfanti non avevano ancora voce in capitolo, mentre quasi tutta la classe dirigente del paese era contro la strombazzata novità. Sciolta la Camera, un certo avvocato Molara ardì presentarsi contro il duca, facendo un programma quasi rivoluzionario in cui si parlava del «più che trilustre sgoverno,» di diritti «conculcati,» di rivendicazioni «imminenti,» non che di redde rationem. I fautori del duca si strinsero intorno a lui sentendosi con lui minacciati. Per rispondere alla «sfida» del Molara, il duca mise fuori, dopo cinque legislature, una «Lettera ai miei elettori». Benedetto Giulente, che aspettava ancora di poter fare un programma per proprio conto, la scrisse. Essa enumerava i titoli della Destra alla gratitudine dell’Italia, la cui unificazione era tutta opera di quel partito: se errori erano stati commessi, questi avevano la loro origine nelle circostanze e non nelle intenzioni. Don Gaspare fu così rieletto con duecento e più voti; Molara potè raggruzzarne a stento un centinaio. Uno dei nuovi ministri della Riparazione, passando da Catania, fu accolto a fischiate.

Ma intanto che il duca s’ubriacava del nuovo trionfo, Consalvo fiutava il vento, si rendeva conto del mutamento operatosi in tutta Italia, dell’imminenza delle riforme liberali. Pertanto, senza prender parte all’agitazione elettorale, dichiarò che la Destra era morta e sepolta. Tenendo la gente a distanza, per non contagiarsi, cominciò a dichiarare d’esser «democratico». E lo zio don Eugenio veniva appunto in quel frangente a proporgli l’affare del Nuovo Araldo!... Egli lasciò che quello straccione facesse anticamera un bel pezzo; poi, udita la sua domanda, alzò le spalle.

— Ma che araldo e trombettiere! Queste cose hanno fatto il loro tempo! Il municipio non può spendere i denari dei contribuenti per incoraggiare pubblicazioni ispirate alla divisione delle classi sociali. Ce n’è una sola: quella dei liberi cittadini!