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La Tigre 47

grossa di lui, se la trascinò in mezzo alla piantagione, per divorarsela con suo comodo.

— Buona digestione, — disse il mozzo.

— E domani avremo della carne fresca, — aggiunse Albani.

— Che ne lasci per noi? — chiese il marinaio.

— Quando si sarà sfamata se ne andrà, senz’altro occuparsi degli avanzi. Sono certo di trovare domani nella piantagione, buona parte di quel disgraziato animale. Andate a riposare ora, amici miei: comincio il mio quarto.

— Non tornerà la tigre?...

— Non credo, d’altronde in caso di pericolo vi chiamerò. —

I due marinai si ritirarono sotto la tenda e il veneziano si sedette presso il fuoco, dopo aver gettato sui tizzoni dell’altra legna.

Il resto della notte passò senz’altri allarmi, però il signor Albani e il mozzo udirono, in mezzo alle foreste, urla di tigri, grugniti e sibili i quali indicavano a sufficienza, come quell’isola fosse ricca di selvaggina d’ogni specie e anche di animali pericolosi.

Urgeva quindi fabbricarsi tosto una solida capanna, per non correre il pericolo di venire assaliti o di passare le notti in continui allarmi.

— Andiamo, amici, al lavoro — disse il veneziano, quando spuntò il sole. — Prima di sera bisogna avere un ricovero.

— Non dimentichiamo però la carne lasciata dalla tigre, signore — disse il marinaio. — Se continuiamo a mangiare frutta, fra due settimane non potremo più reggerci in piedi.

— Con un po’ di pazienza ci procureremo tutto, Enrico. Pensa che siamo sprovvisti d’ogni cosa, che siamo i più miseri di tutti i Robinson e che dovremo cominciare dalle cose di prima necessità. Fra un mese spero di non udirti più a lamentare.

— È lungo un mese, signore. Sapete che comincio a soffrire per la mancanza del pane?...

— Fra poco il pane abbonderà.