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236 Capitolo trentatresimo

nubi, mostrando lo spumeggiante oceano, seguìti da scrosci così formidabili da far tremare l’isola intera.

I quattro Robinson, quantunque fossero molto stanchi, non erano capaci di dormire con tutto quel fracasso. Di tratto in tratto uscivano per dare uno sguardo alla loro scialuppa, temendo che anche dentro il canale irrompessero le onde e la sfracellassero contro la spiaggia.

Di frequente volgevano anche gli sguardi in direzione dello scoglio solitario, credendo di veder apparire improvvisamente la giunca scorta al mattino, ma quella nave non si vedeva più.

Verso sera, continuando a imperversare l’uragano, si cacciarono in fondo alla piccola caverna e accomodatisi alla meglio, cercarono di gustare un po’ di sonno. I tuoni erano diventati più radi, ma il vento soffiava sempre con estrema violenza, contorcendo gli alberi delle vicine foreste.

— Speriamo domani di ritornare alla nostra caverna, — disse Enrico. — Mi pare che sia trascorso un secolo, e rivedrò con piacere Sciancatello. —

I suoi compagni non risposero. Russavano già come ghiri.

Il loro sonno però non fu lungo, poichè non erano trascorse due ore, quando gli orecchi acuti del maltese furono colpiti da una detonazione che pareva provenisse dalla parte del mare. Non era lo scroscio d’un fulmine, nè lo sfasciarsi d’una montagna d’acqua contro le scogliere, ma un cupo rombo che rassomigliava allo sparo d’un piccolo pezzo d’artiglieria o per lo meno d’una grossa spingarda.

Sorpreso ed un po’ inquieto s’alzò, lanciando sul mare burrascoso un lungo sguardo, ma non scorse che tenebre, fra le quali appena si distinguevano le creste spumanti delle onde.

— Che mi sia ingannato o che abbia sognato? — mormorò.

Ascoltò alcuni minuti, ma non udendo ripetersi quella detonazione, tornò a coricarsi. Stava per richiudere gli occhi, quando udì un secondo sparo.

Non si era ingannato: un cannone od una grossa spingarda aveva tuonato al largo.