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16 Capitolo terzo

In pochi minuti i due nuotatori attraversarono la distanza che li separava dall’albero su cui si teneva il loro compagno, colui che abbiamo udito chiamare il Piccolo Tonno.

Quest’ultimo superstite era il mozzo della Liguria. Era un ragazzetto di quindici o sedici anni, agile come una scimmia, bene sviluppato, con un viso intelligente e furbesco.

Aveva occhi grandi e neri, tagliati a mandorla, il profilo regolarissimo che rammentava quello delle razze greco-albanesi, una boccuccia da donna con due labbra vermiglie, guancie un po’ abbronzate, pienotte e capelli neri.

Era stato imbarcato tre anni prima dal defunto capitano Falcone, il quale lo aveva raccolto morente di fame sulle spiaggie d’Ischia. Non aveva conosciuto nè il padre, nè la madre, e solo ricordavasi di aver passata la sua gioventù in compagnia d’un vecchio pescatore, vivendo assieme fino al giorno in cui quel poveraccio era morto.

Rimasto solo, aveva errato a capriccio sulle sponde o nelle campagne delle isole, vivendo di granchi e di frutta che rubava di notte, finchè sopraggiunto l’inverno, estenuato, ridotto a pelle ed ossa, era caduto morente sulla riva, dove era stato trovato dal capitano, che erasi colà recato per visitare una sua vecchia parente.

Ubaldo detto il Piccolo Tonno — tale era il suo nome, poichè mai ne aveva avuto un altro, — aiutò i compagni a salire sul rottame, cercando contemporaneamente che l’albero non girasse su sè stesso.

— Auff!... — esclamò il marinaio, scuotendosi di dosso l’acqua che gli aveva inzuppato le vesti. — Ancora mezz’ora ed io correvo il pericolo d’andare a picco come una palla di cannone.

— E di venire tagliato in due da quel mangiatore di uomini, è vero camerata, — disse il mozzo.

— Senza il signor Emilio, non so se a quest’ora avrei ancora attaccate le gambe. Grazie, signore; non dimenticherò mai....