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di don Silvestro, ti dò un ceffone qui dove siamo; — borbottava la Zuppidda colla figliuola, mentre attraversavano la piazza. — Quello lì non mi piace.

La Santuzza, all’ultimo tocco di campana, aveva affidata l’osteria a suo padre, e se n’era andata in chiesa, tirandosi dietro gli avventori. Lo zio Santoro, poveretto, era cieco, e non faceva peccato se non andava a messa; così non perdevano tempo all’osteria, e dall’uscio poteva tener d’occhio il banco, sebbene non ci vedesse, chè gli avventori li conosceva tutti ad uno ad uno soltanto al sentirli camminare, quando venivano a bere un bicchiere.

— Le calze della Santuzza, — osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina, — le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano; questa è la verità.

— Ci sono i diavoli per aria! — diceva la Santuzza facendosi la croce coll’acqua santa. — Una giornata da far peccati!

La Zuppidda, lì vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di là, che pareva ce l’avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: — Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perchè il Signore ci castiga! — Persino la madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le mosche!

— Bisogna pregare anche pei peccatori; — rispondeva la Santuzza; — le anime buone ci sono per questo.